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19/06/2018 ILLECITI PENALI - Corte di Cassazione, sentenza n. 52135/2018- Reato di truffa con trattamento dati senza consenso

Corte di Cassazione, sentenza n. 52135/2018

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Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 2.2.2012 il Tribunale di Rieti, all'esito del processo celebrato con rito abbreviato, ha condannato, per quanto qui d'interesse, XXX e XXX, alle pene di legge per il reato di cui agli art. 61, n. 2, e 110 cod. pen., 23 e 167, comma 1, d. Lgs. 196/2003, perché XXX come amministratore di fatto ed il XXX come amministratore di diritto della Rieti Costruzioni S.r.l., al fine di conseguire il reato di truffa ai danni della Ruredil S.p.A. (reato per cui non si procedeva per mancanza di querela) e, quindi, per trarne profitto, avevano proceduto al trattamento dei dati della Rieti Costruzioni S.r.I., redigendo un falso verbale di assemblea ordinaria datato 21.11.2009, di modo da mutare la compagine, senza il necessario consenso: XXX era diventato amministratore in luogo di XXX, mentre XXX amministratore di fatto, ed in tali qualità avevano commissionato due forniture di materiali edili alla Ruredil S.p.A. senza provvedere al pagamento di C 10.279,90 e cagionando danni al fornitore ed agli effettivi titolari della Rieti Costruzioni S.r.l., perché XXX ed XXX avevano ricevuto solleciti di pagamento per forniture mai chieste, in Rieti, Cittaducale e Roma tra novembre 2009 ed il 10.1.2010 ed accertati in Rieti sino al 3.7.2010; nonché solo il XXX anche di minaccia di cui all'art. 612 cod. pen., nei confronti della XXX, in Cittaducale il 3.3.2010. La Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha applicato la sospensione condizionale della pena al XXX, con conferma nel resto.

2. XXX presenta ricorso personale in cui lamenta la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in relazione alla mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche in misura prevalente. Con successiva memoria a mezzo difensore ribadisce il motivo di doglianza, osservando che la Corte territoriale s'era limitata a confermare la statuizione del Giudice di prime cure, non valutando nessuna delle ragioni addotte a sostegno della richiesta. XXX con il primo motivo eccepisce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in relazione agli art. 192 cod. proc. pen., 23 e 167 d. Lgs. 196/2003. Segnala che i fatti come contestati integravano la truffa per la quale mancava la querela, che, se pure presentata, non avrebbe consentito di perseguire anche il reato ex d. Lgs. 196/2003: ciò avrebbe determinato un'indebita proliferazione di capi d'imputazione in relazione ad un unico fatto. Gli artifici ed i raggiri della truffa costituivano parte inscindibile del reato e non potevano essere contestati autonomamente, nemmeno nell'ipotesi in cui il reato principale non fosse stato procedibile a querela. Con il secondo motivo, deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in relazione agli art. 192 cod. proc. pen. e 61, n. 2, cod. pen. L'artificio era elemento costitutivo del reato di truffa, donde l'incongruità della contestazione dell'aggravante. Con il terzo motivo, denuncia la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in relazione agli art. 192 cod. proc. pen. e 62-bis cod. pen. Il diniego era stato motivato in ragione delle conseguenze dannose per le parti civili che avrebbero ostato all'applicazione del beneficio. Ritiene che tale valutazione fosse il frutto di un equivoco di fondo, perché, se le parti civili avessero subìto delle conseguenze dannose, ciò sarebbe stato dovuto alla truffa. Il danno accertabile nel presente procedimento era solo quello direttamente o indirettamente causato dal trattamento dei dati sensibili. La Corte territoriale avrebbe dovuto individuare un danno di rilevante entità, diverso ed autonomo rispetto a quello della truffa. La norma non precludeva l'applicazione del beneficio a chi avesse causato un danno patrimoniale, sicché il diniego delle circostanze attenuanti generiche non poteva limitarsi al rilievo in ordine ai danni causati, ma avrebbe dovuto spiegare in che modo ciò avrebbe reso il ricorrente immeritevole dell'attenuazione della pena. Con il quarto motivo, lamenta la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in relazione agli art. 192, 538, 539 e 541 cod. proc. pen. La condanna era stata apodittica in considerazione del fatto che non era stato mai investigato alcun danno proveniente dal reato contestato, mentre quello rilevato in sentenza appariva piuttosto la conseguenza di altro supposto reato che non era stato mai accertato.

Considerato in diritto

3. I ricorsi sono manifestamente infondati.

3.1. I Giudici di merito hanno accertato in fatto che gli imputati avevano predisposto un falso verbale di assemblea societaria, all'insaputa di XXX e XXX, il primo amministratore unico e socio di maggioranza, il secondo socio di minoranza della Rieti Costruzioni S.r.l., verbale da cui era risultata la cessione delle quote della XXX al XXX che aveva assunto la carica di legale rappresentante della società, mentre il Bellilli non solo era stato il segretario, ma si era reso responsabile anche del reato di minaccia nei confronti della XXX. Con la loro condotta gli imputati avevano cagionato alle persone offese il danno di forniture, che le stesse non avevano ordinato né utilizzato, ma dei cui costi erano state gravate.

3.2. Seguendo l'ordine logico delle questioni, va osservato con riferimento al rapporto tra l'art. 640 cod. pen. e l'art. 167 d. Lgs. 196/2003 che si tratta di reati che tutelano beni giuridici diversi e presentano modalità di attuazione solo in parte sovrapponibili. La norma del codice penale è genericamente posta a tutela del patrimonio della persona offesa, mentre la norma del Codice in materia di protezione dei dati personali è specificamente posta a tutela della riservatezza dei dati dell'individuo. Nella truffa, l'agente con artifizi e raggiri induce altri in errore per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui nocumento, nel reato dell'art. 167 d. Lgs. 196/2003, invece, salvo che il fatto costituisca più grave reato, l'agente per trarre per sé o per altri un profitto o per recare ad altri un danno, procede al trattamento dei dati personali in violazione di norme specificamente indicate e con diverse conseguenze sul piano sanzionatorio. La lettura dell'art. 167 d. Lgs. 196/2003 induce la considerazione che la condotta qualificante è l'illecito trattamento dei dati personali, che prescinde dall'uso di artifizi e raggiri, dall'induzione in errore, e dal nesso causale tra il profitto ed il danno, siccome non è richiesta nessuna di queste condizioni, e, per giunta, il profitto è alternativo al nocumento. Nella truffa si ritiene generalmente che il dolo sia generico (Cass., Sez. 2, n. 24645/12, Presicce, Rv 252824), nel reato di cui all'art. 167 d. Lgs. 196/2003 che il dolo sia specifico (Cass., Sez. 3, n. ccin(4, 3683/14, G., Rv 258492).

Tali considerazioni valgono a convalidare la conclusione che i due reati possano coesistere, con la conseguenza che la mancata contestazione dell'uno non preclude la contestazione dell'altro. 3.3. Quanto alla contestazione dell'aggravante teleologica, va ribadito l'orientamento di questa Corte (si veda Sez. 2, n. 32862/12, D'Alesio, Rv 253166, Sez. 4, n. 36971/03, Povini e altri, Rv 226375, Sez. 5, n. 32688/03, Rv Munar, Rv 226536, sez. 5, n. 11497/00, Carbone D e altri, Rv 217977) secondo cui è possibile la relativa contestazione anche quando il reato-fine sia perseguibile a querela di parte e questa non sia stata presentata, essendo irrilevante l'applicazione di una causa d'improcedibilità, e ciò perché la suddetta aggravante intende punire la maggiore intensità della condotta delittuosa posta in essere dall'imputato, il quale, pur di pervenire alla consumazione del reato-fine, non arretra nemmeno di fronte all'eventualità di commettere anche un altro reato, così dimostrando una maggiore capacità criminosa: proprio tale maggiore pericolosità rende indifferente che il reato-fine sia stato solo tentato o consumato, ovvero che allo stesso debba applicarsi una causa di non punibilità o di estinzione o d'improcedibilità, in quanto ciò che rileva ai fini dell'applicabilità dell'aggravante è il rapporto che lega la commissione dei due reati.

3.4. La motivazione del diniego delle circostanze attenuanti generiche, in ragione del nocumento patrimoniale provocato, è immune da censure perché la Corte territoriale ha valutato la gravità della condotta perpetrata a partire dal danno patrimoniale cagionato alle persone offese. Come di recente precisato da questa Sezione con sentenza n. 57928/17, XXX, il "nocumento" previsto dall'art. 167, d.Lgs. n. 196 del 2003, indipendentemente dalla sua qualificazione in termini di condizione obiettiva di punibilità ovvero di elemento costitutivo del reato, deve essere inteso come un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale o non patrimoniale, subìto dalla persona alla quale si riferiscono i dati o le informazioni protetti (Sez. 3, n. 30134 del 28/05/2004, dep. 9/07/2004, Barone, Rv. 229472; Sez. 3, n. 23798 del 24/05/2012, dep. 15/06/2012, Casalini e altro, in motivazione; Sez. 5, n. 44940 del 28/09/2011, dep. 2/12/2011, C. e altro, in motivazione), ma anche da terzi quale conseguenza dell'illecito trattamento (Sez. 3, Ordinanza n. 7504 del 16/07/2013, dep. 18/02/2014, Pontillo, Rv. 259261; Sez. 3, n. 17215 del 17/02/2011, dep. 4/05/2011, L., Rv. 249991). Alla luce di tale inquadramento, ben può dunque rientrare, nel concetto di nocumento, il danno, che presenta profili parimenti patrimoniali e non patrimoniali, dovuto all'illecita trasmissione di un verbale di assemblea societaria contenente dati falsi, recante l'indicazione di soggetti che hanno assunto delle cariche in virtù delle quali hanno contratto debiti per la società. Infine, va osservato che i ricorrenti non hanno dedotto a sostegno delle proprie ragioni specifici elementi integranti i presupposti per l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, sicché, sotto tale profilo, la doglianza è senz'altro aspecifica. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che i ricorrenti versino la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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